L'intervento di Fra Luca Fallica

Il racconto di Luca: una buona notizia per l’oggi

Il racconto di Luca: una buona notizia per l’oggi

Como, 26 settembre 2018

Un’opera in due parti

Ci introduciamo, con l’incontro di questa sera, al vangelo di Luca, che avrete modo di leggere e di approfondire nel corso di questo anno. Il farlo, tuttavia, chiede a noi lettori una prima consapevolezza, importante, che ci consente peraltro di fissare subito lo sguardo su una caratteristica peculiare dell’opera lucana, che la distingue dagli altri racconti evangelici e dai loro autori. Quando accostiamo il vangelo di Luca, infatti, dobbiamo anzitutto essere consapevoli che si tratta della prima parte di un’opera letteraria più complessa, che include anche gli Atti degli Apostoli. Il Vangelo, in altri termini, non è che la prima parte di un’opera pensata in due volumi: Vangelo e Atti. E questo non è soltanto un elemento letterario o narrativo: rivela anche una originale e profonda visione teologica di Luca, un suo modo peculiare di comprendere e consegnare a noi, suoi lettori, la storia di Gesù e l’opera della salvezza di Dio che in essa si è rivelata, compiendosi in mezzo a noi. In altri termini, siamo posti dinanzi a un interrogativo importante, anzi decisivo per comprendere bene il terzo vangelo: perché Luca, a differenza degli altri evangelisti, ha ritenuto necessario non concludere il suo racconto con la risurrezione di Gesù e la sua ascensione al Padre, ma ha sentito il bisogno di integrare la storia di Gesù con la storia della prima comunità cristiana, narrata appunto negli Atti degli Apostoli?

Così sta scritto

Possiamo trovare una risposta a questo interrogativo nell’ultima pagina con cui egli chiude il Vangelo. Mi riferisco all’apparizione del Risorto ai discepoli riuniti insieme a Gerusalemme. Spiegando ai discepoli, ancora increduli, il significato della sua Pasqua attraverso le Scritture, Gesù a un certo punto afferma:

Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni (At 24,44-48).

Attenzione a queste parole: …così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati… La Chiesa, con il suo ministero profetico di annuncio e di testimonianza, è inclusa, è già dentro, a ciò che sta scritto. Appartiene cioè al compimento delle Scritture. Le Scritture si compiono in modo pieno non soltanto nella Pasqua di Gesù, ma in quanto la sua Pasqua è accolta, vissuta, annunciata, testimoniata dalla comunità cristiana. Ecco perché Luca avverte il bisogno, dopo aver concluso il Vangelo, di iniziare la seconda parte della sua fatica narrativa e teologica: quella che ora noi definiamo Atti degli Apostoli. Se non lo facesse, per lui la storia di Gesù rimarrebbe incompiuta, perché il compimento non è solo nella Pasqua, ma nel fatto che la Pasqua viene adesso annunciata dalla Chiesa a tutte le genti. Potremmo dire che in quel versetto c’è come l’indice fondamentale dell’opera di Luca: così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno – e questo Luca lo racconta nella prima parte della sua opera, il Vangelo – e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati – e questo è ciò che racconta nella seconda parte della sua fatica letteraria, gli Atti degli Apostoli –. Dunque, la Chiesa e il suo ministero appartengono al compimento delle Scritture. È un primo tratto della fede cui fare attenzione. La fede per Luca è un’esperienza ecclesiale, comunitaria: è suscitata dalla testimonianza della Chiesa e si nutre di relazioni ricche e profonde all’interno della comunità cristiana. Non si crede da soli, si crede insieme agli altri e lasciandosi sostenere e illuminare dalla loro esperienza di fede, per quanto possa essere diversa dalla propria. Alla fine del Vangelo i due discepoli di Emmaus vivono un incontro molto personale con il Risorto, ma la verità di quanto hanno provato lo dovranno ascoltare dalla comunità, quando ritornati a Gerusalemme, prima ancora di poter raccontare la propria esperienza di fede, ascolteranno dalla comunità il racconto dell’esperienza di fede di Pietro: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!» (24,34). È ascoltando quanto ciò che è stato vissuto da Pietro, e che ora viene raccontato dalla comunità, che Cleofa e il suo compagno comprenderanno in modo più vero e profondo la loro stessa esperienza di fede, vissuta prima lungo il cammino e poi nella sosta a Emmaus. Qualcosa di molto simile accade anche negli Atti: Saulo-Paolo incontra personalmente il Risorto sulla via di Damasco, ma la verità di ciò che ha vissuto la comprenderà ascoltandola dalla voce di Anania, un discepolo della comunità di Damasco.

Avvenimenti compiuti tra di noi

Dietro questo modo di raccontare possiamo intravedere, quasi in filigrana, l’esperienza di fede che ha vissuto lo stesso evangelista. Credo che anche questo sia un aspetto da tenere ben presente quando accostiamo un racconto evangelico. In esso si riflette sempre l’esperienza di fede di colui che scrive, il suo modo di conoscere e di incontrare personalmente il Signore. C’è la sua esperienza e quella della sua comunità. Dobbiamo allora fare attenzione a ciò che Luca ci dice di sé, e lo fa proprio all’inizio del suo vangelo, in quattro versetti che costituiscono il prologo del suo scritto. Possiamo ascoltarli:

1Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, 2come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, 3così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, 4in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto (1,1-4).

Luca qui dichiara di aver fatto ricerche accurate sugli avvenimenti di cui vuole scrivere, fondandosi anche su coloro che ne sono stati testimoni oculari. È dunque evidente che lui non è tra costoro. Luca non è tra i discepoli storici di Gesù di Nazaret, non ha potuto assistere con i suoi occhi a qualche evento della sua vita; non è un testimone oculare. È un discepolo della seconda generazione, la cui fede dunque, come la nostra, si basa sulla testimonianza di altri. Anche Luca, così come Paolo scrive di sé nella prima lettera ai Corinti, consegna quello che a sua volta ha ricevuto dalla testimonianza di chi lo ha preceduto (cf. 1Cor 15,3). E tuttavia Luca parla di avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi. Compiuti: nel greco nel quale scrive, Luca ricorre qui a un’espressione verbale di cui possiamo mettere in luce almeno due caratteristiche:

  • è un participio passivo, e dobbiamo intenderlo come un passivo divino, un passivo cioè che allude all’agire di Dio: è Dio stesso che compie gli eventi narrati, e di conseguenza si manifesta in essi.
  • In secondo luogo, è un passivo perfetto. Diversamente dall’aoristo, in greco il perfetto indica un evento del passato che conserva un’efficacia e un’attualità nel presente. Questi fatti compiuti nel passato, rimangono contemporanei a ogni epoca storica. Per questo Luca può parlare di essi come fatti accaduti «fra noi». Luca dichiara di non essere stato un testimone oculare, eppure può affermare che i fatti di cui scrive sono accaduti tra noi, proprio perché non rimangono chiusi e circoscritti nel passato, ma conservano un’attualità che permane. Come Luca, anche noi, che pure ci collochiamo a più di duemila anni di distanza, possiamo dire con lo stesso significato che questi eventi salvifici rimangono compiuti anche fra noi, perché fra noi continuano a manifestare la loro potenza salvifica. C’è un oggi della salvezza che non tramonta. Anche noi siamo dentro questo oggi. Siamo dentro questo oggi salvifico.

 Luca ci si rivela, in tal modo, come un evangelista molto attento a cogliere la storia della salvezza in tutto il suo arco complessivo. Come giustamente osserva mons. Pierantonio Tremolada, profondo conoscitore dell’opera lucana, oggi vescovo di Brescia:

Emerge nell’opera lucana una visione singolare della storia, considerata come lo scenario di un disegno di grazia realizzato da Dio a favore dell’umanità. Gli studiosi parlano di una teologia della storia presente negli scritti di Luca e alcuni di loro ritengono che essa vada concepita ritenendo la storia stessa suddivisa in tre tempi: il tempo di Israele, il tempo di Gesù, il tempo della Chiesa. Di un simile disegno di salvezza il tempo di Gesù costituirebbe dunque il centro. La successione cronologica qui prospettata esige però una precisazione: essa è accettabile in linea di principio, a condizione di non considerare il terzo tempo come linearmente successivo al secondo. Il tempo della Chiesa, infatti, non segue a quello di Gesù al modo in cui il tempo di Gesù segue quello di Israele. Anche nel tempo della Chiesa il vero soggetto della salvezza resta Gesù, il Cristo risorto e asceso al cielo, che opera nella potenza dello Spirito santo. Di questo, in effetti parla il libro degli Atti degli Apostoli.[1]

L’ascensione al cielo di Gesù, mentre chiude il vangelo, apre gli Atti degli Apostoli: il Signore asceso rimane presente nella vita della comunità. La sua salvezza, compiuta nella Pasqua, rimane un evento che continua a compiersi in mezzo a noi. Tant’è vero che più volte Luca mostra che egli eventi che nel Vangelo hanno avuto come soggetto e protagonista Gesù, negli Atti hanno come soggetto e protagonisti alcuni credenti in Gesù, all’interno della nascente comunità cristiana. Ad esempio, Stefano muore come Gesù muore, perdonando i suoi uccisori e affidando la propria vita a Gesù come Gesù si era affidato al Padre. «Alzati e cammina!», dice Gesù al paralitico di Lc 5. «Nel nome di Gesù il Nazoreo, [alzati e] cammina!», dice Pietro allo storpio che mendica presso la Porta Bella del tempio, in Atti 3. Potremmo fare altri esempi, e tutti ci porterebbero a concludere che ciò che a Luca preme mostrare è che la salvezza che si è compiuta in Gesù continua a compiersi nella storia grazie a coloro che credono in lui e operano nel suo Nome. «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso», proclama Gesù in Luca 6,36. Un versetto importante, perché nel Primo Testamento il termine ‘misericordioso’ è quasi esclusivamente al singolare, poiché uno solo è il misericordioso, Dio, e noi siamo coloro che hanno bisogno di ricevere la sua misericordia. Grazie a Gesù, alla sua vicenda storica, alla sua Pasqua, ora il termine misericordioso può essere declinato anche al plurale: non solo dobbiamo ricevere misericordia, ma siamo chiamati a diventare misericordiosi come misericordioso è il Padre. Ci è donato di divenire partecipi della sua stessa misericordia. Ora la sua misericordia deve incarnarsi e continuare a essere presente nella stria degli uomini grazie ai gesti, alle parole, alla testimonianza della comunità cristiana, una comunità nella quale si impara a obbedire a quella parola che Gesù dice al dottore della legge, a conclusione della parabola del buon samaritano: va’ e anche tu fa lo stesso, va’ e anche tu fa misericordia!

L’oggi della salvezza

Ecco che per Luca la vicenda di Gesù, il suo Vangelo, diventa un oggi, l’oggi della salvezza che rimane, che non tramonta, che continua a essere il nostro oggi. Il nostro oggi è dentro l’oggi di Gesù. Nel racconto di Luca, tutta la vicenda di Gesù è incorniciata da un ‘oggi’. Il primo oggi risuona nel racconto della nascita, nelle parole degli angeli ai pastori: «Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,11). L’ultimo oggi risuona sulla croce, per il buon ladrone: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (23,43). La vita di Gesù è abbracciata dall’oggi della nascita e dall’oggi della morte. È interessante notare anche il gioco delle preposizioni che l’evangelista stabilisce tra questi testi. Nella nascita gli angeli annunciano: «oggi è nato per voi un salvatore». Nella morte Gesù promette: «oggi sarai con me». La vita di Gesù marca questo passaggio dal per voi al con me. Egli nasce per noi perché noi possiamo essere definitivamente con lui. Questo è l’oggi della salvezza! E la fede per Luca è accogliere questo oggi con lo stesso atteggiamento di fiducia e di affidamento del buon ladrone.

Tra il primo oggi della nascita e l’ultimo oggi della croce ci sono altri oggi che scandiscono il racconto lucano, sottolineando sempre come la salvezza di Dio, in Gesù, diventa l’oggi nel quale anche noi dimoriamo. È Il vero tempo della nostra vita. Tra questi oggi ce ne è uno particolarmente significativo, che torna a evidenziare come Luca comprenda la misericordia di Dio, ed è l’oggi di Pietro, ma potremmo dire l’oggi di ogni discepolo. È l’oggi che risuona proprio al cuore dell’infedeltà e del tradimento di Pietro. In Lc 22, 34 Gesù lo ammonisce profeticamente: «Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi». E al v. 61, quando il dramma del tradimento si è ormai compiuto, l’evangelista narra: «Il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. E uscito pianse amaramente».

Anche questo è un oggi, un tempo di Dio, un giorno del Signore da non dimenticare, poiché, come segna la vita di Pietro, marca a fuoco anche la vita di ogni discepolo. È l’oggi in cui sperimentiamo la nostra infedeltà, la nostra incapacità di seguirlo, il venir meno delle nostre forze e delle nostre pretese, perché anche noi pretendiamo spesso di dire come Pietro «Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte», per poi naufragare nell’abbandono e nel tradimento. Ma questo oggi della nostra incapacità di stare con Gesù fino in fondo, e di seguirlo tenendo fisso lo sguardo su di lui (cfr Eb 12, 2), è pur sempre il giorno, l’oggi nel quale lo sguardo di Gesù resta fisso sulla nostra vita. Mentre noi gli vogliamo le spalle, il Signore rivolge a noi il suo volto, ci guarda, ci parla, noi possiamo ricordare la sua Parola, che attraverso il dono delle lacrime ci conduce al pentimento e all’accoglienza del suo perdono. Questo è per Luca l’oggi della misericordia e della salvezza: l’oggi di un volto, il volto di Gesù, il volto del Crocifisso risorto, che si volta su di noi, proprio nel momento del nostro peccato, della nostra infedeltà, del nostro tradimento. Si volge, ci fissa, ci ama, ci perdona, ci fa misericordia. Un volto che si fissa su Pietro perché anche Pietro poi possa divenire un volto che si fissa sui suoi compagni, per confermarli nella fede. Il verbo confermare, nel greco di Luca, è lo stesso verbo con cui egli racconta, in 9,51, che Gesù rese fermo il suo volto nella decisione di dirigersi verso Gerusalemme, di salire verso la sua Pasqua. Il volto fermo del Cristo crocifisso e risorto si fissa su Pietro e lo salva affinché anche il volto di Pietro possa rendere ferma la fede dei suoi compagni. Siate misericordiosi, come il Padre è misericordioso, come è misericordioso il volto di Gesù, piena rivelazione del volto del Padre.

Il Vangelo del viandante

Ci siamo posti in ascolto dell’esperienza della ‘Casa di Gabri’, una comunità, prima ancora una casa nella quale la misericordia si fa davvero storia, accoglienza, gesti concreti di compassione e di prossimità. Credo che a un credente come Luca sarebbe piaciuto questo nome – ‘Casa di Gabri’ – poiché nella sua visione la ‘casa’ è un simbolo importante che esprime bene un aspetto fondamentale della vita di fede, insieme però a un altro simbolo, che non va dimenticato, altrettanto importante, qual è il simbolo o l’immagine della ‘via’. Possiamo un po’ indugiare ora proprio su queste due immagini: la ‘via’ e la ‘casa’, che ci offrono un altro sguardo suggestivo sull’opera lucana.

Quello di Luca è stato definito da alcuni specialisti, come don Massimo Grilli, docente di Nuovo Testamento alla Gregoriana, di cui dirige anche il Dipartimento di teologia biblica, come ‘il Vangelo del viandante’. Luca – egli afferma – «è l’evangelista del cammino»: del cammino di Gesù, del cammino della Parola, del cammino di tutti coloro che la annunciano. Negli Atti degli Apostoli egli definisce i discepoli di Gesù come «quelli della via» (At 9,2). La stessa fede cristiana è una Via, un cammino, che conosce un traguardo, una meta, ma che al tempo stesso rimane consapevole di quanto sia necessario il viaggio, con le sue tappe progressive, per arrivarci. Gesù stesso, nel Vangelo di Luca, cammina molto. Nella scena inaugurale del suo ministero pubblico, vale a dire la predicazione nella sinagoga di Nazaret narrata al capitolo quarto, Gesù inizia subito a patire il rifiuto, al punto tale che i suoi concittadini, i nazaretani, lo cacciano fuori dal loro villaggio e tentano di ucciderlo. Scrive l’evangelista:

29Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. 30Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

Per dire che Gesù si mise in cammino, Luca usa qui un imperfetto, dunque un verbo che descrive un’azione che continua: Gesù camminava; si mette in cammino e continua a camminare. Inizia già da subito il grande viaggio, che poi conoscerà una svolta decisiva al capitolo 9, in quel celebre versetto 51, nel quale l’evangelista annota:

51Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme 52e mandò messaggeri davanti a sé.

Gesù cammina e mette in cammino, davanti a sé o dietro di sé; comunque sia il discepolo deve camminare con lui, e anche quando, dopo la sua risurrezione, egli siederà alla destra del Padre, il viaggio comunque continua, in particolare negli Atti degli Apostoli, che ci presentano (come già ricordavo prima) i cristiani come ‘quelli della Via’. Attraverso di loro è la parola stessa di Dio che cammina, che continua a camminare, sino a giungere con Paolo a Roma, nel centro dell’impero romano, luogo simbolico per dire che essa viene annunciata «fino ai confini della terra» (cf. At 1,8). Anche noi, oggi, in questo oggi che non tramonta, continuiamo a essere dentro questo cammino della Parola, che cammina con noi e attraverso di noi, attraverso le nostre comunità.

Il viaggio della misericordia

Il cammino stesso di Gesù verso Gerusalemme e verso la sua Pasqua, ben presente in tutti e tre i vangeli sinottici, in Luca è molto più ampio. Ed è un viaggio che assume anche la caratteristica peculiare di essere il viaggio della misericordia. Come ricorda la parabola della pecora smarrita nel grande capitolo della misericordia che è il capitolo 15, il pastore si deve mettere in cammino per cercare l’unica pecora perduta, e deve continuare a camminare finché non la trova, e dopo averla trovata se la deve caricare sulle spalle, riprendere il cammino non solo per riportarla verso il gregge dal quale si era separata, ma anche per chiamare amici e vicini e invitarli a rallegrarsi con lui. Il viaggio della misericordia è anche il viaggio della gioia. Anche un’altra celebre parabola tipicamente lucana, quella del buon samaritano, ci mostra questo personaggio che, secondo l’interpretazione di Ambrogio di Milano e di altri padri della Chiesa, è figura stessa di Gesù, il quale mentre è in viaggio da Gerusalemme a Gerico può mostrare tutta la sua compassione e misericordia guarendo e salvando quel tale, incappato nella violenza dei briganti che lo avevano lasciato mezzo morto lungo la strada. Prima di salire a Gerusalemme, quando il viaggio si avvia verso la sua conclusione, nella casa di Zaccheo, Gesù rivela ancora una volta, e adesso con grande chiarezza, il senso e lo scopo del suo viaggio. Penso in particolare alle due parole che Gesù rivolge a Zaccheo, nelle quali torna a risuonare ancora l’oggi della salvezza:

«Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua», al v. 5 del capitolo 19, e poi, ai vv. 9-10: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. 10Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Zaccheo è l’ultimo personaggio che Gesù incontra nel suo viaggio, prima di entrare a Gerusalemme. In Marco l’ultimo incontro è con Bartimeo, il cieco di Gerico; in Matteo sono i due ciechi di Gerico; in Luca il pubblicano Zaccheo, un peccatore, che Gesù è venuto a cercare e a salvare. E il viaggio si concluderà a Gerusalemme, nell’evento della croce, quando Gesù prometterà al buon ladrone: «oggi con me sarai nel paradiso». Il viaggio di Gesù si conclude in paradiso, nella casa del Padre, nella quale Gesù ritorna, non però da solo, ma portando con sé, sulle sue spalle, come il pastore con la sua pecora smarrita, il buon ladrone, e con lui ogni uomo che è egli è venuto a cercare e a salvare. Questo è il significato del suo viaggio, del suo cammino, e tale deve essere anche il significato della via che i suoi discepoli continuano a percorrere lungo le vie della storia e del mondo. Il viaggio del discepolo negli Atti si conclude con Paolo che, narra Luca nei due versetti conclusivi della sua opera:

30trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, 31annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento (At 28,30-31).

Il libro si conclude, ma il viaggio della Parola continua. Come Paolo anche noi siamo chiamati ad annunciare, con tutta franchezza e senza impedimento, il regno di Dio, la sua misericordia, l’oggi della sua salvezza.

La via e la casa

Forse, se avete fatto attenzione, vi sarete accorti che, mentre parlavo della via, del cammino di Gesù e dei suoi discepoli, inevitabilmente, qua e là, è emersa, implicitamente o esplicitamente, anche l’altra grande immagine, che non possiamo dimenticare: l’immagine cioè della casa. Ad esempio la casa di Zaccheo, un pubblicano, nella quale Gesù deve entrare, anche a costo di suscitare la dura mormorazione dei farisei e di tutti coloro che si ritenevano giusti, poiché osservanti della Legge, anche se dimentichi della misericordia. O la casa che Paolo prende in affitto a Roma, per continuare ad annunciare il vangelo del Regno, nonostante le sue catene. Anche il grande viaggio di Gesù verso Gerusalemme, è costellato di case, nelle quali Gesù entra e rimane, o alle quali allude, in particolare nelle sue parabole. Pensiamo ad esempio alla casa di Marta e Maria a Betania, che lo accoglie, al capitolo decimo. Peraltro, non ci sono soltanto le case degli amici, come le due sorelle di Betania, o dei peccatori, come Zaccheo; ci sono anche le case dei farisei, nelle quali comunque Gesù entra per pranzare, anche se la sua presenza sconvolge il loro più ovvio modo di pensare e comportarsi. In una di queste case, ad esempio, Gesù guarisce il malato di idropsia in giorno di sabato (cf. 14,1-6); in queste case ammonisce gli invitati a non cercare i primi posti, li sollecita a invitare ai loro banchetti non coloro dai quali attendere una ricompensa, ma poveri, storpi, ciechi, zoppi. In questa stessa casa narra la parabola sugli invitati che non accettano l’invito. Anche se è un episodio che si colloca prima che inizi il grande viaggio verso Gerusalemme, possiamo ricordare anche la casa di un altro fariseo, nella quale Gesù entra al capitolo settimo, quella di Simone, nella quale accoglie i gesti ricolmi di amore della donna prostituta alla quale sono perdonati i suoi molti peccati perché ha molto amato (cf. Lc 7,36-50). Anche questa è una casa nella quale, con Gesù, entra e risplende la misericordia di Dio. Né possiamo dimenticare le case del capitolo 15, nel quale Luca raccoglie le tre parabole della misericordia: la casa che la donna deve spazzare accuratamente per trovare la moneta perduta; e poi la casa ancora più celebre dei due fratelli, il più piccolo che se va di casa, il maggiore che non vuole più entrarvi perché non comprende e non accetta la misericordia con la quale il padre accoglie il cosiddetto figlio prodigo che fa ritorno. È illuminante, per questa nostra ricerca, questo capitolo quindicesimo, nel quale Gesù narra tre parabole, che però sono una sola parabola, come scrive Luca. Sono in effetti un’unica parabola, non tanto perché tutte e tre insistono sul medesimo tema, o perché si assomiglino (in particolare le prime due, che sono due piccole parabole gemelle), ma perché va colta la dinamica narrativa che le unifica. Il loro più profondo significato emerge solamente se le si legge tutte e tre insieme, quasi in un solo fiato. Le tre parabole sono una sola parabola perché rivelano non tre atteggiamenti differenti di Dio, ma un solo modo di essere e di agire, o meglio un solo criterio di discernimento e di giudizio, che poi si manifesta in modi e direzioni differenti, come mostrano i tre diversi racconti.

La prima parabola descrive un pastore che cerca l’unica pecora che si è smarrita fuori dal gregge, anche a costo di lasciare le altre novantanove non al sicuro, ma nel deserto. La seconda vede protagonista una donna che ‘accuratamente’ cerca la moneta che si è perduta dentro la casa. Infine, nella terza e ultima parabola, il padre esce incontro a entrambi i figli, sia quello che torna dopo essersene andato fuori di casa, sia quello che, pur essendo rimasto sempre dentro casa, ora non vi vuole più entrare. I modi di smarrirsi possono essere molto diversi: ci si può perdere al di fuori, come accade alla pecora della prima parabola, o dentro, come per la dramma perduta; infine, la terza parabola sintetizza entrambe le situazioni, con i due figli, uno perso fuori, l’altro dentro casa. E il Padre esce incontro a entrambi, così come il pastore cerca la pecora perduta fuori o la donna la moneta perduta in casa. Gesù cerca i pubblicani e i peccatori, ma cerca anche farisei e scribi: a tutti Dio, il Padre, vuole elargire la sua misericordia e gioire per aver ritrovato ciò che si era perduto. Questa è la visione della salvezza d Luca, una salvezza universale, rivolta a tutti, anche se conosce dei destinatari privilegiati: i poveri e i peccatori.

Dal tempio alla casa

Ecco l’importanza che la casa ha, per Luca, insieme alla via. Alcuni esegeti e teologi osservano una dinamica interessante nell’opera complessiva di Luca. Possiamo definire questa dinamica come un ‘passaggio dal tempio alla casa’, o dal ‘mistero del tempio’ al ‘mistero della casa’. Il vangelo di Luca, infatti, si apre con una duplice rivelazione divina: a Zaccaria, nel tempio di Gerusalemme, con l’annuncio della nascita di Giovanni; a Maria, in una modesta casa di Nazaret, con l’annuncio della nascita di Gesù. Due rivelazioni simili, che si attuano entrambe attraverso la mediazione dell’arcangelo Gabriele, ma con un esito del tutto diverso. Zaccaria infatti rimane muto, mentre in Maria la parola di Dio diventa così pregnante ed eloquente da farsi addirittura carne nella sua carne. Zaccaria rimane muto, Maria giunge a parlare con tutta la sua vita, fino a dare vita alla parola di Dio nella sua e nella nostra carne, nella sua e nella nostra storia. Potremmo anche dire che nel tempio di Gerusalemme la parola di Dio entra nel silenzio per parlare ora in modo diverso, nella casa di Nazaret.

… in casa e non nel tempio ha inizio la vicenda umana del «Figlio di Dio» (Lc 1,35). E se è vero che è il tempio il luogo in cui il vecchio Simeone scorge in Gesù la «salvezza» preparata da Dio (Lc 2,22-35), è altrettanto vero che la stessa «salvezza» raggiungerà la «casa» di Zaccheo (Lc 19,9)[2].

Come in quella di Zaccheo, la salvezza di Dio entra nelle nostre case. Ancora: mentre il vangelo di Luca si apre e si chiude nel tempio di Gerusalemme (all’inizio con l’annuncio della nascita di Giovanni a Zaccaria, alla fine con i discepoli che dopo l’ascensione si ritrovano nel tempio a pregare e lodare Dio: cfr. Lc 1,5-25 e 24,53), gli Atti degli Apostoli al contrario si aprono e si chiudono in una casa: all’inizio abbiamo infatti la casa dove il Risorto mangia con i discepoli e dove i discepoli riceveranno il dono dello Spirito Santo, alla fine troviamo la casa di Roma che Paolo prende in affitto e nella quale continua a proclamare, se pure in catene, l’evangelo del Regno (cfr. At 1,4 e 28,30-31). Mi sembra molto significativo anche per noi, per il nostro essere Chiesa oggi, questo passaggio tipicamente lucano dal tempio alla casa. Ci ricorda che l’esperienza di fede, che pure è generata nel tempio, cioè in una relazione vera e profonda con il mistero di Dio (e dunque nell’esperienza di preghiera, nella vita liturgica, nell’ascolto della parola di Dio e nella celebrazione dei sacramenti, in primis l’eucaristia) è però poi chiamata a giocarsi, a dirsi, a inverarsi nelle case. E la casa non è solo uno dei luoghi ordinari in cui gli uomini e le donne vivono, la casa è qualcosa di più: è lo spazio domestico, relazionale, familiare, intimo, conosciuto, della nostra vita. La casa evoca l’accasarsi, cioè il ‘sentirsi bene a casa propria’, è l’abitare uno spazio che si avverte come proprio, capace di dire chi siamo, che cosa desideriamo, quali relazioni ci fanno esistere. Il vangelo che entra nella casa è un annuncio di vita che ci fa sentire davvero a casa nostra quando accogliamo, viviamo, ci lasciamo trasformare dalle sue logiche. È avvertire che il vangelo è davvero familiare alla nostra vita, è davvero buona notizia per la nostra vita. Per la nostra vita così come è, nella casa dove abita, dove la nostra esistenza viene plasmata dal tessuto ordinario delle relazioni, dove respira la verità degli affetti e dei legami.

In Luca, tanto nel Vangelo quanto negli Atti, la casa è fondamentale anche in ordine all’evangelizzazione e all’annuncio del Regno. Quando Gesù invia i discepoli in missione, prima i Dodici e poi i Settantadue, li invita a rimanere nella stessa casa, senza passare di casa in casa. Leggiamo ad esempio in Luca 10,5-7, quando invia i Settantadue raccomanda loro:

5In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. 6Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. 7Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.

Occorre entrare nelle case e rimanervi, in una condivisione fraterna che trova nella comunione di mensa il suo segno più eloquente. L’evangelizzazione esige sempre anche un saper entrare. Nelle case si entra sempre come ospiti, non da padroni, con rispetto, discrezione, bisognosi di accoglienza, esposti anche al rifiuto, disponibili a condividere ciò che viene messo davanti. Anche su questo tema credo che valga la pena interrogarsi su quali siano le qualità umane e spirituali che consentono davvero di ‘saper entrare’, di ‘rimanere con’, nella libertà di chi sa che l’evangelo stesso deve dare forma a tutte le nostre relazioni. Ad esempio, questo testo di Luca ci suggerisce che occorre vigilare su una qualità di relazione che sappia articolare bene il dare e il ricevere. C’è un saluto della pace da portare, ma anche un pane offerto da accogliere e da mangiare insieme. C’è un portare e nello stesso tempo c’è un ricevere, un donare e un accogliere, riconoscendo i segni di una presenza del Signore che sempre ci precede e che dobbiamo accogliere. La casa, nel modo con cui Luca guarda all’evangelizzazione, assume sempre una grande importanza, proprio come simbolo della fraternità nuova che l’evangelo crea. Negli Atti degli Apostoli spesso l’evangelizzazione si conclude con i missionari che rimangono nella casa di coloro ai quali hanno annunciato l’evangelo. Il racconto dell’evangelizzazione di Pietro presso Cornelio si conclude in Atti 10 proprio con questo invito: dopo aver ricevuto il battesimo, Cornelio e quelli della sua casa pregarono Pietro di «fermarsi alcuni giorni» (At 10,48). La stessa cosa accade a Paolo nella fondazione della comunità di Filippi. Luca racconta che Lidia, dopo aver ricevuto il battesimo «ci invitò dicendo: “Se mi avete giudicata fedele al Signore, venite e rimanete nella mia casa”» (At 16,15). L’evangelizzazione non si conclude con il sacramento, il battesimo; c’è una tappa ulteriore, rimanere insieme nella casa, perché il vangelo annunciato e accolto trova la sua verità nella comunione che rende possibile. Coomentava alcuni anni fa don Antonio Torresin:

Oltre che «entrare» ci è chiesto di «rimanere», cioè di abitare la quotidianità degli uomini, la vita ordinaria fatta delle cose di ogni giorno, del nascere e del morire, del lavoro e della fatica, dell’amore e delle passioni… Anche in questo la fraternità è una risorsa: se viviamo relazioni fraterne comprenderemo meglio la vita quotidiana delle persone. […] La vita feriale e quotidiana fatta dei gesti familiari (dormire, mangiare, lavorare, soffrire, gioire, relazionarsi, stancarsi, riposarsi, perdere tempo, aspettarsi, vivere i silenzi e le parole), proprio questa vita deve essere abitata[3].

Se sapremo vivere questi atteggiamenti, allora anche le nostre case diventeranno case nelle quali il Vangelo può entrare e rimanere; potranno diventare, in altri termini, case della misericordia, come anche l’esperienza della ‘Casa di Gabri’ ci ha testimoniato.

[1] P. Tremolada, Vangeli, in Assaggi biblic. Intoduzione alla Bibbia, anima della teologia, a cura di F. Manzi, Ancora, Milano 2006, p. 179.

[2] G. C. Pagazzi, «Dio nel tempio Dio nella casa», in PSV 64 (luglio-dicembre 2011), 242.

[3] A. Torresin, «Li mandò a due a due». Missione, povertà e fraternità del presbitero, in «La Rivista del Clero italiano» 83 (2002), 819-830: 825.